Nakagin Capsule Tower: Benvenuti nell’era dell’abitare disumano

Elena Grasso
Elena Grasso - EG Communication
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È un’idea che desta curisoità e che inquieta allo stesso tempo: vivere all’interno di una capsula, in pochi metri quadrati, con tutto l’essenziale a portata di mano — e nulla di più. Ma dietro l’estetica minimalista e il design compatto si cela forse un progetto più ampio, più sottile, più disumano: trasformare l’uomo contemporaneo in un automa, un criceto che gira nella ruota, un topo in trappola. Non più individuo, ma unità abitativa. Non più essere umano, ma esperimento vivente.

Il concetto è vecchio quanto il sogno della modernità, ma oggi torna prepotente, mascherato da avanguardia. Il MoMA di New York espone fino al 2026 una delle capsule abitative più famose del XX secolo: la A1305, proveniente dalla celebre Nakagin Capsule Tower di Tokyo, simbolo del movimento metabolista. Un’icona architettonica diventata oggi un oggetto da museo, e al tempo stesso una provocazione.

Il video pubblicato su YouTube, una clip immersiva da 3 minuti e mezzo, permette di esplorare la capsula a 360 gradi: si entra, si osservano le curve in plastica termoformata del micro‑bagno, si aprono sportelli, si gira lo sguardo. Tutto è perfetto, silenzioso, calibrato. Ma qualcosa manca. Aria. Spazio. Libertà. Umanità.

Certo, si può vivere anche in una cella. Basta poco per sopravvivere. Ma chi ha deciso che “basta vivere” sia sufficiente? Chi ha stabilito che un micro-bagno e un letto pieghevole siano il nuovo traguardo dell’abitare?

L’uomo moderno, tecnologico e globalizzato, sembra accontentarsi di questo: uno spazio compatto, funzionale, privo di disordine ma anche di vita. Il futuro, ci dicono, sarà così: verticale, contenuto, efficiente. Senza lavastoviglie, ma con connessione Wi-Fi.

E intanto, mentre ammiriamo il design vintage delle capsule giapponesi, ci accorgiamo che in fondo ci viviamo già dentro, nelle capsule. Le chiamiamo monolocali, le arrediamo su misura, e ci stringiamo sempre di più: cucine a scomparsa, letti contenitore, docce nel corridoio, frigoriferi sopra la lavatrice. Viviamo compressi, riconfigurati, in una quotidianità che somiglia ogni giorno di più a un set da esperimento sociale.

Tra i commenti al video del MoMA, uno colpisce nel segno: “No thanks! Human houses for me, not prisons.” E forse è questa la vera domanda da porci: stiamo costruendo il futuro… o la nostra prigione?

Le capsule raccontano una fantasia di controllo, ordine, efficienza. Ma sono anche il segnale di una società che sta riducendo lo spazio vitale dell’uomo, non solo fisicamente, ma anche simbolicamente. Più ci chiudiamo, più perdiamo contatto con ciò che ci rende umani: la disorganizzazione creativa, l’inutile bellezza, l’abbondanza imperfetta della libertà.

Vivere in una capsula può sembrare una conquista. Ma forse è solo l’ultima tappa di un lento e invisibile tentativo di addomesticamento.

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