I tempi per il giornalismo stanno diventando sempre più difficili, ma non tanto per i mezzi, quanto per i contenuti. I canali di comunicazione sono aumentati esponenzialmente, eppure, con la stessa rapidità, si è amplificata la distorsione dell’informazione, sempre più orientata a suscitare sentimenti di paura e orrore nei confronti della realtà. In sostanza, il bene non fa notizia, mentre il male, quando presente, diventa oggetto di masturbazione collettiva, alimentata dalla corsa ad afferrare l’evento, a immortalarlo. Rendere eterno il dolore, farlo apparire perenne, seducente e, paradossalmente, ordinario.
Anche il modo di fare notizia è cambiato. Non più sul campo, non ci si accerta della notizia, non serve. C’è internet, e liddove non ci si può “acculturare” tramite il web, ci sono le voci che riportano, o i comunicati, poi distorti o copia incolla, e a fare il discriminante non è mai l’intenzione buona, strettamente connessa alla notizia, ma tutta una serie di accadimenti e caratteristiche che nulla hanno a che vedere con l’informazione in atto.
L’informazione semplicemente non c’è. Oggi, i giornalisti hanno trovato un modo molto astuto per organizzare gli spazi vituali, e non: chi paga, è visibile, e la macchina di Google è entrata prepotentemente nelle menti, nei metodi di lavoro dei giornalisti, obbligati a discriminare il cliente distinguendolo tra pagante e non pagante. Non importa se la notizia in questione sia interessante; non c’è nulla di più interessante di una full page o di una sponsorizzata. E non importa se lo spazio proposto sul giornale sia la mezza pagina, un mini post dedicato, o la storia della durata di 24 ore, non importa: significa semplicemente che ci sarà “mezza notizia”, mutilata, incompleta. L’importante è che sia passata dal vaglio dell’editore, commerciale.
E se vogliamo comunicare gioia, eventi positivi, o aspetti valoriali della vita, quelli che tendono al bene? Non c’è spazio se non si paga, troppi articoli da gestire.
È sempre stato così, ma oggi c’è qualcosa di paurosamente diverso. Tutto ciò è diventato normalizzato: è un modus vivendi, un pensiero ricorrente, una modalità massificata, quella degli editori e dei comuni giornalai.
Terribile, ma anche fortemente penoso. L’intento di comunicare valori è ostacolato dall’esigenza del guadagno: non possiamo permetterci di perdere tempo con la dimensione valoriale, vogliamo concretezza. Raccogliere fan è l’unico obiettivo: Da un lato, attraverso il dolore, dall’altro mediante il piacere provocato dalle immagini di volti noti in vacanza, che alimentano la morbosa seduzione del “vorrei essere al suo posto”, del voyeurismo che spia, attraverso il buco della serratura, la vita dei ricchi. Un film a cielo aperto, una Matrix del lusso e del dolore. Una lenta distruzione di massa che ci allontana dal bene e e dalla dimensione profonda del nostro essere.
Se vogliamo davvero avvicinarci a quella dimensione che chiamiamo verità, dobbiamo prendere le giuste distanze dall’APPARENZA di verità, offerta, a caro prezzo, dall’informazione di massa. Ciò che è dato attraverso l’informazione può e deve passare dalla coscienza, dai maestri, da chi studia, da chi cerca. E da chi non scende a compromessi o vive sulla superficie delle cose, intense cose, se riuscissimo a vederle nella loro vera essenza.
Elena Grasso