Perché giudichiamo: La Trave dietro la pagliuzza dell’Altro

Elena Grasso
Elena Grasso - EG Communication
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Torna alla ribalta un tema più che mai attuale: l’abitudine a esprimere opinioni sul web riguardo ai fatti del mondo. C’è chi li definisce “i soliti leoni da tastiera”, coloro per cui nulla va mai bene. Armati solo di parole, sembrano avere una soluzione per tutto, sempre e comunque. Ma proprio da qui si apre una riflessione più ampia: che cosa significa, davvero, giudicare?

Chi ha davvero gli strumenti per farlo? Qual è la differenza tra un giudizio e un’opinione? E soprattutto: perché l’essere umano avverte continuamente il bisogno di giudicare gli altri?

Un tratto comune in chi giudica è spesso l’incapacità di guardare dentro se stesso. Come afferma il Vangelo di Luca, è più facile “vedere la pagliuzza nell’occhio del fratello, senza accorgersi della trave nel proprio”. Ma da dove nasce questo impulso?

In termini psicologici, ciò che accade si definisce transfer emozionale: le emozioni interiori vengono inconsciamente spostate su qualcosa o qualcuno all’esterno, evitando così di affrontare il proprio disagio. Concentrarsi sui problemi altrui diventa una strategia di fuga, una forma di protezione dal dolore che deriverebbe da uno sguardo sincero su se stessi. In questo senso, il giudizio diventa un meccanismo di difesa: una barriera contro la sofferenza, un modo per sopravvivere emotivamente.

Spesso ci si indigna di fronte a una decisione politica o alla condizione di un’altra persona, provando una rabbia che si ritiene giustificata. Eppure, quella rabbia nasce quasi sempre dentro, non è provocata dall’esterno. Sorge allora una domanda inevitabile: perché ciò che accade fuori disturba così tanto? Per amore della giustizia? Per amore del Paese? È possibile. Ma se così fosse, perché non si agisce per cambiare le cose? Perché si preferisce criticare invece di intervenire?

La risposta è, al tempo stesso, semplice e complessa: la rabbia che alimenta il giudizio è radicata nella storia personale di chi la prova. È un’emozione che spesso blocca anziché spingere all’azione. Non riuscendo a trasformare se stesso, l’individuo proietta all’esterno la propria frustrazione, attaccando ciò che percepisce come una minaccia. Avverte che qualcosa dentro di sé non funziona, ma gli risulta più facile riconoscere i limiti altrui piuttosto che affrontare i propri.

Giudicare, in fondo, significa affermare qualcosa per come appare. Ma ciò che appare non è necessariamente ciò che è: si tratta di una realtà filtrata dalla percezione e dalle esperienze personali di chi osserva. Prendiamo ad esempio chi critica l’operato di figure politiche per la mancanza di servizi o attività nel proprio paese: spesso non considera che una comunità è lo specchio di chi la abita, l’insieme delle menti e delle coscienze che la compongono. Anche chi giudica ne fa parte. E ciò che si pensa della realtà esterna è, in parte, qualcosa che si è contribuito a creare.

Se ognuno fosse un po’ più consapevole di sé, se imparasse a camminare nel proprio percorso evolutivo senza attribuire agli altri la responsabilità di ciò che è o che vive, comprenderebbe che tutto dipende dal modo in cui si guarda alla realtà, dal modo in cui si interpretano i propri pensieri. A quel punto, si potrebbe scegliere da che parte stare: da quella costruttiva, o da quella distruttiva.

Perché nel momento stesso in cui si giudica, spesso si lavora contro se stessi. Si alimenta una visione che impedisce la crescita. Occorre quindi fare attenzione: ai propri pensieri, ai pregiudizi, alle opinioni affrettate, ai commenti impulsivi sui social. Tutto questo è solo il riflesso di ciò che si porta dentro.

Viviamo in una società che fatica a guardarsi allo specchio, convinta com’è di essere immune da difetti e responsabilità. “Una società immatura, che ha smarrito il legame con il cuore e con il divino, e che tuttavia si illude di essere come un dio — ma un dio ateo ed arrogante, scollegato da ogni senso di umanità.”

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