Chi è, oggi, un medico? E cosa significa davvero prendersi cura della salute di una persona? Domande scomode, ma necessarie in un tempo in cui il rapporto medico-paziente sembra oscillare tra rigore scientifico, dipendenza da protocolli, e un’incertezza crescente sul senso più profondo della parola cura.
Un tempo, il medico era visto quasi come una figura sacra: incarnava sapere, saggezza, responsabilità. Oggi è, almeno formalmente, ancora il depositario del sapere medico, ma quel sapere è diventato frammentato, iper-specializzato, a tratti meccanico. Alla luce dei profondi cambiamenti nella conoscenza della salute umana — che ora sappiamo essere un intreccio tra biologia, ambiente, mente, emozioni e spirito — ci si chiede se una laurea universitaria e qualche anno di tirocinio siano sufficienti per comprendere e gestire la complessità dell’essere umano.
Formarsi in medicina è un percorso lungo, duro e meritevole di rispetto: anni di studio, esami, tirocini, notti in corsia, aggiornamenti continui. Eppure, se la formazione accademica fosse sufficiente a garantire la salute collettiva, allora oggi non dovremmo trovarci sommersi da malattie croniche, da liste d’attesa infinite, da pazienti sempre più ansiosi e da una popolazione sempre più medicalizzata.
Nessun attacco al medico, ma una riflessione sul modello dominante di medicina che oggi guida gran parte della pratica clinica: un modello fortemente influenzato da logiche farmaceutiche, riduzioniste e meccanicistiche. La salute viene spesso misurata in base a parametri standardizzati: un valore nel sangue, un numero sulla bilancia, un referto strumentale. L’uomo, però, non è solo corpo, non è solo dato biologico. È emozione, pensiero, relazione, ambiente, storia personale.
Oggi, è innegabile che il sistema sanitario sia in larga parte permeato dagli interessi delle grandi industrie farmaceutiche. Non si tratta di teorie complottistiche, ma di un dato concreto: molti protocolli clinici, linee guida e definizioni di malattia sono sostenuti, finanziati e spinti da attori economici che guadagnano sulla cronicizzazione della malattia, non sulla sua risoluzione.
In questo contesto, la medicina ha spesso smesso di farsi domande profonde: Chi è l’uomo? Cosa significa davvero guarire? Qual è il confine tra vita biologica e vita degna? Si punta ad allungare l’esistenza con farmaci da assumere per decenni, ma non ci si interroga abbastanza sulla qualità di quella vita, né su come prevenire davvero le malattie attraverso scelte di vita, consapevolezza, relazioni sane, connessione con la natura.
Intanto, la paura dilaga. I pazienti chiedono esami sempre più frequenti, controlli annuali — a volte mensili — spinti da un’inquietudine che viene coltivata con attenzione chirurgica. Non si tratta di “prevenzione”, ma di un sistema ansiogeno organizzato in cui si vive nella convinzione continua di essere malati o di poterlo diventare da un momento all’altro. Una paura sottile, normalizzata, apparentemente razionale, ma che in realtà è uno strumento potentissimo di controllo.
Questa ansia cronica genera un circolo vizioso: abbassa l’umore, riduce la capacità di discernimento, indebolisce il sistema immunitario e alimenta un bisogno continuo di farmaci e interventi. Una società impaurita è una società controllabile. Una società “curata”, ma mai davvero sana.
Il medico di domani: custode della vita, non solo della malattia
Dobbiamo allora ribaltare il paradigma: non è sufficiente conoscere il corpo umano come una macchina. Serve un nuovo approccio medico, che integri le competenze tecniche con una profonda consapevolezza dell’essere umano nella sua interezza. Serve un medico che sappia guardare oltre i protocolli. Che abbia il coraggio di mettere in discussione le verità assolute e di ricordare che la scienza, per quanto nobile, è pur sempre un punto di vista sulla realtà.
Occorre una medicina più umana, più libera e più spirituale, che smetta di curare solo i sintomi e cominci a prendersi cura delle cause profonde. Una medicina che affianchi al farmaco la parola, alla statistica la relazione, alla diagnosi la comprensione.
Perché la vera guarigione inizia da lì: dal riconoscere che la salute non è solo assenza di malattia, ma equilibrio, energia, amore per sé stessi e per il mondo che ci circonda.
E per questo, non basta più “curare”: dobbiamo cominciare a prenderci cura.