Negli ultimi anni si è registrato un aumento considerevole dell’uso di psicofarmaci, specialmente tra donne e giovani. Questo fenomeno è sintomo di una trasformazione più ampia: la progressiva separazione tra il concetto di salute e quello di benessere, con quest’ultimo sempre più percepito come uno stato da raggiungere a qualunque costo, anche farmacologico.
Secondo l’OMS, la salute è un “completo benessere fisico, mentale e sociale”, ma nella società contemporanea questa definizione si fa sfocata. Oggi, il disagio, anche quando non è clinicamente patologico, viene sempre più spesso trattato come malattia. È il meccanismo del disease mongering, la tendenza a medicalizzare condizioni fisiologiche e momenti esistenziali (menopausa, adolescenza, lutto, stress lavorativo), con l’effetto di ampliare il mercato dei farmaci.
Dati recenti confermano l’allarme: quasi un italiano su cinque ha assunto psicofarmaci nell’ultimo anno, con picchi tra le donne e un preoccupante aumento tra i giovani post-Covid. Tra gli adolescenti, l’uso di psicofarmaci senza prescrizione è salito al 18%, con incidenze doppie o triple tra le ragazze. Un fenomeno che segnala una crescente fragilità psicosociale, spesso legata a fattori economici, familiari e relazionali.
Molte delle sofferenze trattate con farmaci sono però forme depressive non patologiche — esistenziali o reattive — che riflettono il disagio di vivere in una società incerta, ipercompetitiva e precaria. In questi casi, l’uso del farmaco rischia di diventare una scorciatoia che silenzia il dolore anziché affrontarlo, come ricorda la sociologa Anna Paola Lacatena.
La spinta alla medicalizzazione ha anche una matrice commerciale. Le aziende farmaceutiche, come ricorda Zygmunt Bauman, individuano e alimentano nuovi “mercati emotivi” da saturare con pillole della felicità. Le cure non farmacologiche, come la psicoterapia, sono più complesse e costose, ma l’abuso di farmaci comporta costi pubblici ingenti: solo in Italia, si spendono oltre 2 miliardi di euro l’anno per psicofarmaci, con una crescita del 10% tra i giovani.
Le donne rappresentano il bersaglio privilegiato di questa strategia. Già dagli anni ’40, sono state oggetto di marketing specifico per farmaci come Valium o Prozac. Oggi, il 67% delle donne italiane ha ricevuto almeno una prescrizione farmacologica, spesso in assenza di alternative terapeutiche mirate e sensibili al genere.
Anche i giovani sono particolarmente vulnerabili: passano più tempo online, dove messaggi e contenuti influenzano la percezione del malessere e promuovono l’autoprescrizione. I social e la musica, specie trap e rap, hanno contribuito a normalizzare l’uso degli psicofarmaci per modulare l’umore e anestetizzare le emozioni.
Il risultato è una società che non ha più tempo per ascoltare il dolore, dove il farmaco diventa la risposta immediata a un disagio che spesso ha radici profonde e complesse.
La medicalizzazione del disagio psicosociale impone una riflessione urgente. Serve un cambio di paradigma: più spazio all’ascolto, alla prevenzione e a cure non farmacologiche, specie per le fasce più esposte come donne e giovani. Perché la salute non è solo assenza di malattia, ma anche riconoscimento e valorizzazione della fragilità umana.