Nel firmamento scintillante del Festival di Cannes 2025, tra paillettes, lustrini e silhouette già viste, un’apparizione ha spezzato la consueta monotonia dei tappeti rossi: Shu Qi, celebre attrice cinese e membro del cast dell’attesissimo Resurrection, ha lasciato il segno con un abito che è stato molto più di una scelta di stile, una dichiarazione culturale, artistica e simbolica.
La star ha indossato una creazione della collezione couture Primavera 2025 di Ashi Studio, maison libanese celebre per le sue architetture tessili. Il suo abito, in un intenso rosso mattone, è stato tra i più fotografati e ammirati dell’intera kermesse. Linee essenziali e scultoree lo rendevano simile a un’opera d’arte, quasi un simulacro del pensiero orientale, e in armonia con la grazia composta dell’attrice.
A colpire è stato anche il contrasto posteriore: un mantello nero ricamato a fili d’oro, con motivi ispirati alla tradizione cinese, che aggiungeva profondità e significato al look. Più che un semplice elemento decorativo, il mantello sembrava raccontare una storia: un ponte fra tradizione e modernità, fra Oriente e Occidente.


In un festival dove l’apparenza spesso rincorre l’effimero, l’attrice ha scelto l’eloquace sostanza della forma, l’eulibrio e la compostezza di uno stile di rottura.
A completare questo quadro di raffinata eleganza, tre gioielli in oro bianco e diamanti, selezionati per esaltare la luminosità naturale dell’attrice senza sovrastarne la delicatezza:
- Il bracciale “Diamond Frequencies”, sofisticato e moderno;
- Il mono-orecchino “Emerald”, dal taglio deciso e pulito;
- L’anello “Illusionnistes”, pezzo iconico che gioca con luci e volumi, aggiungendo un tocco onirico all’ensemble.
Shu Qi ha brillato non solo per la sua bellezza, ma per la capacità di incarnare una femminilità consapevole e sofisticata, in grado di incarnare contenuti oltre che stereotipi. Un tributo alla cultura orientale, alla bellezza senza tempo e a uno stile che osa, anche nella sua apparente sobrietà.
Un’apparizione destinata a restare nella memoria del festival.
Elena Grasso