Il Gioco degli Scacchi: molto di più di ciò che si può immaginare

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Ho imparato a giocare a scacchi da bambina ma certo allora non sapevo che stavo maneggiando un’idea del VI secolo che da allora avrebbe impegnato popoli, arte, filosofia, meditazione e calcolo. L’Unesco nel 1966 vi ha dedicato una giornata mondiale, il 20 luglio che è lo stesso giorno in cui fu fondata la FIDE nel 1924, per i valori educativi di “cambiare le prospettive, i pregiudizi e i comportamenti, nonché di inspirare le persone, abbattere le barriere razziali e politiche, combattere la discriminazione, stemperare i conflitti e, di conseguenza, contribuire a promuovere l’educazione, lo sviluppo sostenibile, la cooperazione, la sostenibilità, l’inclusione e la salute ad ogni livello, locale, regionale e internazionale” riconosciuti al gioco degli scacchi. E non vi è dubbio che a ben vedere ci siano tutti, tanto che la Federation Internationale Des Echecs introdusse tale disciplina tra le categorie disputate nelle ottave Olimpiadi moderne.

Basta una scacchiera che non impegna molto spazio con i pezzi specifici e due contendenti a disputare la partita. La maggior parte di noi ne ha sperimentato le regole, si allena la mente e si imparano strategie, ci si educa alla prospettiva delle probabilità e alla costruzione pianificata delle mosse, al confronto senza differenze tra uomini e donne, razza e età.

Oggi più di 605 milioni di persone giocano il gioco degli scacchi; si può immaginare quanto sia stato inclusivo e lo sia ancora di più da quando la tecnologia ha consentito di cimentarsi online perfino giocando contro gli stessi computer! Il giovane norvegese Magnus Carlsen, nato nel 1990, è stato nominato dalla Fide “grande maestro internazionale” a soli 13 anni!

Eppure in gioco potrebbero essere altri significati se comunque è competizione finalizzata al “mangiare” l’avversario, come si dice quando si va nella casella occupata da un pezzo di colore opposto, per “catturarlo” eliminandolo per sempre dal gioco. È consentito a qualsiasi pezzo di catturarne qualsiasi altro, dunque in competizione ci si può aspettare tutto da tutti inchiodati da mosse strategiche ma alla fine si vince solo se si cattura il re avversario, non a caso una figura simbolo del potere. A ben guardare la scacchiera e la collocazione dei pezzi, si nota che a protezione del re e davanti ai pezzi importanti sono schierati i pedoni che fanno da barriera e scudo. Sarà un caso ma i pedoni, i pezzi più plebei e meno blasonati che hanno avuto assegnata la prima fila, sono i primi a essere immolati, quelli più esposti come accade nelle realtà belliche dove il popolo subisce l’impatto più violento mentre i potenti sono tutelati almeno fino a che si scardinano le loro difese.

Terreno arduo quello delle interpretazioni simboliche ma proviamo ad esplorare la leggenda persiana dell’invenzione degli scacchi, che non è quella dei Greci attribuita a Palamede che gioca con Odisseo nel mosaico del pavimento della cattedrale di Pesaro. È quella tratta dal libro di Malba Tahan “L’uomo che sapeva contare”. Narra del Re indù Iadava che aveva combattuto una guerra sanguinosa nei campi di Dacsina contro l’avventuriero Varangul, lo aveva sconfitto ma aveva dovuto sacrificare molte vite e tra queste quella del proprio figlio, il principe Adjamir. Il re non aveva conforto e ogni giorno sulla sabbia di una grande scatola ricostruiva i passaggi dello scontro, ne riprendeva i particolari per poi cancellare e ricominciare.

Un uomo di nome Sissa del villaggio di Namir, a trenta giorni di cammino dalla città del Re, gli portò in dono un gioco che simulava la guerra, lo “shatranj”. Il nome significava “esercito composto da quattro elementi” ed era giocato su una tavola divisa in sessantaquattro caselle uguali sulle quali erano allineati simmetricamente due gruppi di pezzi, bianchi e neri.

Quell’uomo spiegò al re e a nobili e cortigiani le regole fondamentali per muovere i pezzi, forse già statuine di legno intagliate, ciascuno dei quali rappresentava un’arma, il  pedone la fanteria, il cavallo, la cavalleria, l’elefante da guerra, oggi alfiere, il carro.

Il gioco si concludeva con lo scacco matto, dal persiano shah mat, “re sconfitto”, una trappola tesa al re che non può più difendersi e viene eliminato dalla scacchiera. Lo scacco matto al re poneva termine alla partita per poterne ricominciare un’altra e tentare una nuova sfida e la vittoria. Potrebbe derivarne il messaggio positivo di speranza di una seconda occasione che permette di ricominciare, ma solo nel gioco perché nella realtà bellica si muore, come accadde al figlio del re. Se ne rese conto il re accorgendosi che i pezzi, dopo tutte le mosse fatte, erano distribuiti esattamente come nella battaglia di Dacsina e l’uomo gli fece constatare che per vincere doveva sacrificare proprio il pezzo che aveva posto a capo delle schiere impegnate strategicamente al centro dell’impresa bellica, il figlio.

Spiegata così la morte del principe assumeva uno scopo ben preciso, necessario per assicurare pace e libertà al suo popolo ed emergeva anche un altro elemento, un Re è impotente senza l’aiuto e la dedizione dei suoi sudditi, i pedoni. Era la lezione di conforto e di fede dell’uomo che era un bramino, e i bramini appartengono alla casta indiana dei religiosi.

Nell’epilogo della narrazione Sissa dà un’altra dimostrazione. Quando il re, distratto ormai dal doloroso pensiero e grato gli chiese come avrebbe potuto compensarlo lui espresse il desiderio di avere un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due chicchi per la seconda casella, quattro per la terza e così via. Inizialmente sorpreso il re dovette poi rendersi conto che anche una richiesta che appare umile e solvibile può avere un costo enorme: se le caselle erano 64, dal calcolo non sarebbero bastati i raccolti dei successivi ottocento anni per mantenere la promessa.

Il re capì il senso del gioco e il bramino Lahur Sessa, ritirata la sua richiesta, divenne il governatore di una delle province del regno, un premio alla sua saggezza.

Mariolina Frisella

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