“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” è l’art. 54 della Costituzione Italiana, interessante e difficile perché impone che si ri-conoscano i principi di disciplina e di onore e si applichino, ma ciò significa anche che, al contrario, deve essere chiaro quando non si osservano e documentabile.
Al cittadino italiano che è chiunque, anche a chi non possiede la formazione adeguata, si chiede l’obbligo alla fedeltà alla Repubblica Italiana, a cui la Costituzione fa riferimento. Ma quelli a cui sono affidate funzioni pubbliche sono chiamati ad adempierla in concreto con “disciplina e onore” in aggiunta al dovere di fedeltà.
Rimane dubbio se per funzionari pubblici si intendano anche i coloro che hanno funzioni politiche, punto fondante per assegnare anche a loro quello stesso dovere di disciplina ed onore che ricade sui funzionari della Repubblica.
Ed è utile capirne il profilo giuridico perché se è sicuramente un principio nobile ritenere che i cittadini, uomini e donne e dunque persone, possano maturarlo indipendente, sappiamo che “nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege.
Chiedersi quali sono i comportamenti disciplinati e onorevoli riconoscibili giuridicamente e al contrario quelli che non lo sono, è il punto che ci riguarda senza scivolare in giudizi.
E non è così scontato perché ci accorgiamo che disciplina e onore appaiono collocati in una dimensione di valenza etica e civile con l’intento di pro-muovere la moralizzazione della vita pubblica. Serve ritrovarne il necessario supporto giuridico perché per quanto la spinta etica e morale debba e possa maturare dirittura comportamentale negli uomini, abbiamo imparato che in assenza di quel preciso riscontro oggettivo che ne chiarisce i limiti superando la vaghezza dei termini e il relativismo interpretativo, persiste la crisi generalizzata di responsabilità.
Possiamo solo tentare una ricerca dei significati, prima quello di disciplina e a seguire quello di onore e come sempre nei processi culturali la comprensione utile può trarsi dal raffronto tra i significati originari e quelli che hanno subito modificazioni dovute ai cambiamenti storici rispetto al contesto nel quale è stata pensata e decisa la norma Costituzionale. Spiegandone le ragioni di allora se ne colgono forse i limiti di oggi a cominciare dalla interpretazione del lemma “disciplina” quale regolarità e decoro, perizia, competenza, apprendimento. Se dal latino disco, apprendo, imparo, èl’atto dell’apprendere, dell’avere appreso e di conseguenza dell’insegnare, dunque è competenza? Già questo farebbe riflettere sulle nomine dei funzionari pubblici e potrebbe porre il dibattito sulle scelte politiche in merito.
In fondo ha sempre mantenuto la accezione di competenza, quando da insegnamento di materie letterarie del trivio, grammatica, retorica e dialettica, e scientifiche del quadrivio, aritmetica, geometria, musica, astronomia, come sostenne Terenzio Varrone nel 116-27 a. C., nel medioevo comprenderà la cognitio rerum, lo scibile ma anche il metodo per maturare tutta la propria educazione perfettibile fino al dominio delle forze spirituali. Qui sta un punto sensibile: se ne profilava una dimensione autoritaria, propria del maestro, e una dimensione eteronoma, propria della liberalità nel sottomettersi all’autorità del maestro se convinti della bontà della sua opera educativa. Il gesuita Ignazio di Loyola fondava la disciplina nell’esercizio della ragione dell’alunno più che nella capacità autoritaria del maestro, ma la visione della disciplina autonoma, lo sostenne Rousseau in Émile nel 1762, non teneva conto della necessità relazionale dell’uomo che non può contare solo su stessO. Filangieri, in Scienza della legislazione del 1780-85 ci dirà: “l’uomo non può essere felice senz’essere libero: tutti ne convengono. L’uomo non può essere felice, senza convivere coi suoi simili: tutti lo sentono; l’uomo non può convivere co’ suoi simili senza una forma di governo e senza leggi: tutti lo concepiscono. L’uomo dunque per essere felice deve essere libero e dipendente“.
Ci si muove più sul terreno ideologico, etico. Rimane in piedi il dubbio se il funzionario pubblico è anche il politico. Ma in tale direzione troviamo quale riscontro giuridico solo il codice disciplinare che scatta quando un individuo si trova in uno speciale stato di soggezione rispetto ad altri: nel diritto privato è del figlio che deve assoggettarsi alla potestà del padre o di colui che ne fa le veci, di chi fa parte di società di cultura, di svago, di sport, assoggettati per statuto all’autorità di chi dirige presiedendo l’associazione, oppure di quelli che prestano lavoro assoggettati all’autorità di coloro presso i quali il lavoro è prestato. Nel diritto pubblico sono maggiori potremo riconoscere i militari di leva, gli iscritti ad associazioni sindacali di datori di lavoro o di lavoratori, i legali o sanitarî iscritti in determinati collegi, i salariati, gli impiegati e i funzionari, gli studenti delle scuole pubbliche, i marinai, o anche i passeggeri, rispetto al comandante di una nave. Ecco dunque, se la procedura attivabile in un procedimento disciplinare è assegnata al superiore gerarchico o a colui che in genere ha vigilanza sugl’individui soggetti, e la pena disciplinare è da questi direttamente applicata, omisso iudice, nel rispetto di procedure definite, salvo poi ricorrere eccezionalmente al giudice competente, è in dubbio che possa scattare per il politico che siede in parlamento o fa parte del governo.
Rimane il suo dovere di fedeltà alla repubblica come tutti i cittadini lo hanno, e di osservarne la Costituzione e le leggi. Forse la Costituzione del 1948 va rivisitata.
Mariolina Frisella