Si sa che i periodi festivi come il Natale ci trovano attorno ad tavolo a giocare a carte. D’altro canto “iocus” è passatempo da una parte e dall’altra il “ludus” ne sottolinea la divertente giocosità, che rilassa come ebbe a notare Aristotele, o che sviluppa piacere in un gioco di pensieri come sostenne Immanuel Kant, o esprime libertà e fantasia secondo Friedrich Schiller. Interessante come per il filosofo olandese Johan Huizinga in Homo ludens del 1938, non è il gioco che esprime cultura, ma piuttosto la cultura che assume il carattere di un gioco. “La civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco”. Da qui il senso educativo ed estetico che trasforma quel piacere in qualcosa di più.
Oggi il gioco è attività sportiva o olimpica, è il più attuale game come partita a punteggio, o il play come commedia. Nel gioco competiamo con noi stessi e con gli altri, assumiamo una serietà che tradisce il nostro fingere il passatempo, emoziona e ci rende parte impegnata con la memoria e con le regole, alla rincorsa del risultato che è anche il vincere. In fondo non giocano soltanto nemmeno gli anziani e i meno anziani quando nei paesi siciliani, per strada o nei cortili davanti le persiane di casa se in estate, si sfidano tra “briscole”, “tivitti” e “scopa”. Sono modi della tradizione che magari i giovani non conoscono più ma sicuramente i siciliani all’estero si sono portati appresso nella valigia dei ricordi.
Lo straordinario è che nel maneggiare le carte siciliane tocchiamo la storia, quella personale, perché il gioco è allenamento della mente tra calcolo, strategia e immaginario, e cultura narrata dai semi oro, bastone, coppe e spada e dalle figure in ciascuna delle 40 carte del mazzo. Una comunicazione che inizia in Spagna dove sono state introdotte dagli Arabi, o meglio dai Mamelucchi Egiziani, musulmani che governarono in Egitto dal XIII all’inizio del XVI secolo. Le somiglianze tra i semi che usiamo e le 40 carte del mazzo spagnolo, la baraja, deriverebbe dal loro diffondersi a Granada, che fu un emirato fino al 1492. Nel Museo Topkapi a Istanbul, sono custodite le antiche carte dei Mamelucchi.


La tesi di molti studiosi è che le carte sono arrivate in Europa tra il 1375 e il 1400, grazie ai Crociati che hanno imparato ad usarle tra una battaglia e l’altra e rientrati in patria le hanno fatte conoscere alle loro famiglie diffondendole tra le classi nobili e ricche.
Dalla Spagna poi sono arrivate in Sicilia attraverso il meridione d’Italia ed ecco perché le troviamo molto simili in Sardegna e a Napoli, nel piacentino, in Emilia Romagna, oltre che nel Rossiglione francese e in versione marocchina.
I Jawkân, bastoni, i Darâhim, denari o ori, le Suyûf , spade e le Tûmân, coppe, sono i semi che ci arrivano dunque dal mazzo dei Mamelucchi e ciascuno sta a rappresentare una classe sociale: i denari richiamano borghesi e commercianti con il loro potere economico e commerciale, le coppe intese come strumenti rituali rappresentano il potere temporale del clero; i bastoni, che assomigliano ai randelli, sono dedicati alla classe operaia rurale e le spade sono un chiaro richiamo all’aristocrazia o al senato, quindi al potere politico. Poi, chiaro, ogni regione ha voluto scriverci e rappresentare qualcosa di proprio.
Tra le figure particolari incuriosiscono il fante chiamato la donna, quella di coppe sarebbe stata una garibaldina con abiti maschili e con le armi, e la figura sopra il cavallo che per l’origine araba è bianco o grigio. È curioso che le più antiche figure siano a cavallo di un asino, grigio come la cultura araba dettava per le figure importanti e da rispettare, dagli anziani ai sovrani. In forma dialettale se ne parla come di Sceccu, o Sciccareddu ma non è un modo dello scherno quanto piuttosto, dall’arabo shaykh, un segno di umiltà spirituale quella del viaggio in pellegrinaggio a Medina.
I semi rimangono a rappresentare le eredità pure se nel tre d’oro troviamo raffigurata la Trinacria e nel cinque d’oro una biga.
Straordinario, anche le carte quindi ci legano nel dialogo con popoli lontani. È il gioco della storia globale.
Prof.ssa Mariolina Frisella