Come sempre legato alla storia, il cibo ci riporta a quello che siamo stati ed ecco che il sapore della tradizione diventa il gusto delle nostre memorie affettive che ci accompagna negli eventi più importanti.
In quanto icone del Natale il sud vanta il suo buccellato e il nord il panettone. Non sono solo dolci ma racconti che tracciano il percorso storico del gusto.
Il buccellato è il dolce palermitano consumato come dessert dall’Immacolata all’Epifania. Ci riporta al passato nel nome di origine latina:“buccellatum” significa “sbocconcellato”, “pane da trasformare in buccelli”, come quei bocconi che gli imperatori facevano distribuire al popolo durante le feste e gli incontri dei gladiatori. A distribuirli era proprio un addetto con funzione di “buccellarium“. Curioso anche che non mancano riferimenti ironici del buccellatus perché quello siccus era il soprannome affibbiato alle guardie degli imperatori Antonini, come dire i mangiapane corruttibili!
Dunque in origine era un panificatus, preparato con acqua, semola o fiore di farina, panis nauticus se destinato ai naviganti o panis castrensis se per i legionari, di forma rotonda con un buco al centro per appenderlo ad un bastone, facilmente trasportabile e di lunga conservazione. Era il panis coronarius quello ornato con intagli a punta incisi sulla superficie della pasta.
Poi quel buccellatus di pasta spessa cominciò ad essere farcito di frutta fresca o secca, fichi secchi come quelli che fino a qualche tempo fa ancora in Sicilia si vedevano infilati in fili di spago, “incannati” per farli asciugare al sole. Ma anche uva passa, scorze di agrumi, mandorle, noci, cioccolato e miele, testimone di quanto possa modificarsi lo stile alimentare, integrandosi con i prodotti nuovi, quando si cominciò a coltivare la canna da zucchero, si conobbe il pistacchio dell’oriente, e venne importato il cioccolato.
Era diventato il cucciḍḍatu che per molto tempo ancora sarà preparato dalle massaie sullo scannaturi, la tavola di legno su cui si impastava la farina per poi spianarla con il mattarello, darvi forma e farcire il composto.
Oggi è riconosciuto quale P.A.T., Prodotto Agroalimentare Tradizionale, depositato al MIPAAF, Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Detto così sembra un semplice passaggio in cucina eppure è la sintesi di anni che hanno determinato sul buccellato l’influenza della dominazione romana, arabo-normanna e di un medioevo intenso con una prima registrazione formale del buccellato ritrovata in un antico documento del 1485, della scoperta dell’America quando si conobbe il cacao, e dei nuovi più ampi commerci.
La nostra memoria ha il sapore familiare, quando mamme e nonne, con figlie e nipoti, nella grande cucina si riunivano per la festa dell’8 dicembre e cominciavano a preparare il dolce, da conservare per le feste del Natale alle porte o da nascondere per proteggerlo dalle golosità. Ed era calore e cura della famiglia, condivisione dei valori.
Al buccellato siciliano risponde il panettone del settentrione. Il tradizionale dolce nordico abbracci tre storie ambientate nel periodo rinascimentale.
Il panettone dovrebbe risalire al 1495, alla corte di Ludovico Maria Sforza detto il Moro, signore di Milano che aveva ordinato i festeggiamenti per il Natale. In cucina dove fervono i preparativi perché si sa che i convivi rinascimentali dovevano stupire per la abbondanza e la ricchezza delle portate. Ed ecco la circostanza occasionale: un aiutante cuoco avrebbe dovuto seguire la cottura al forno di ciambelle dolci ma Toni, questo il suo nome, si era addormentato e le ciambelle si erano bruciate. Leggenda vuole che Toni, disperato per l’accaduto, cercò di porre rimedio mescolando uova, burro, canditi e uvetta all’impasto avanzato. Ne risultò un dolce molto apprezzato dai nobili invitati e cominciò a diffondersene la fama. Lo chiamarono Pan de toni, dal quale “panettone”.
Un’altra leggenda fa derivare il nome di panettone da “grosso pane”: si narra che Ugo Atellani, la cui famiglia era stata nobilitata da Ludovico il Moro e mal vedeva il rapporto del figlio con la figlia di un umile fornaio, andò a lavorare al forno per inventare una ricetta che avrebbe reso fama al fornaio. Al semplice impasto del pane aggiunse prima zucchero e burro e poi uova e pezzetti di cedro candito per aromatizzarlo. Ne realizzò un grosso pane dolce non solo squisito ma soprattutto gradito agli acquirenti. La bottega divenne famosa e il giovane Ughetto poté sposare la sua Adalgisa.
Si racconta anche di una suor Ughetta che avrebbe preparato il pane aggiungendo zucchero e cedro candito all’impasto e realizzando un dolce che poté rendere festoso il Natale al convento. Prima di infornarlo inserì una croce per benedirlo e fu così che i milanesi cominciarono a dare offerte in cambio del gustoso pane dolce risollevando le finanze del convento. Innegabile la coincidenza dei nomi, Ughetta e Ughetto, che spiegherebbe il motivo per cui nel panettone si trova l’uvetta.
Anche lo storico del ‘700 Pietro Verri ne ha studiato le origini: fa risalire il panettone alla natalizia “cerimonia del ceppo” celebrata da Galeazzo Maria Sforza che spezzava pani grandi davanti al camino, accompagnandovi carni e contorni. Il rito è documentato in uno scritto di Giorgio Valagussa, precettore degli Sforza, del 1470.
Da qui il rito della famiglia riunita attorno al ceppo di legno che arde irrorato per tre volte con vino e ginepro e decorato con la frutta, mentre il capofamiglia spezza simbolicamente il grande pane, dividendolo con i presenti, conservandone una fetta per l’ augurio dell’anno successivo.
Altre tracce storiche ci conducono al Pan de Sciori, dei signori o Pan de Ton. Soltanto nella notte di Natale i panificatori non preparavano pane bianco e pane di miglio, per ricchi l’uno e per poveri l’altro, ma un unico pane con il più costoso frumento, con zucchero, burro e zibibbo, superando le differenze sociali.
La ricetta classica del panettone è documentata nel 1549, quando un cuoco di Ferrara ne scriverà gli ingredienti sottolineando l’importanza della forma tonda. La ricetta è annotata nel 1599 con le spese per il pranzo di Natale in un registro del Collegio Borromeo di Pavia prima e poi nella cucina di Giovanni Vialardi, cuoco dei regnanti sabaudi. Il lievito compare in un ricettario del 1853.
Prof.ssa Mariolina Frisella