Raccontare la Fava: Un viaggio nel gusto di Novembre

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È tempo di fave, quelle secche bollite o a minestra, tradizionalmente preparate nel giorno della Commemorazione dei Defunti. Un modo simbolico per ricostituire una continuità tra la vita e la morte, ha sostenuto lo studioso Pitré.

Ma come può un legume, originario del Medio Oriente e arrivato in Sicilia,  essere considerato una via verso l’Ade per i defunti?

La vicia faba, questo il suo nome dal latino faba e dal greco kúamoi, è un seme molto antico, trovato in villaggi del neolitico e conosciuto prima del 3000 a.C. in Cina, legato spesso alla sfera del sacro.

Si era notato che il gambo della fava è cavo e stranamente privo di legamenti e  si credette che avrebbe permesso la comunicazione tra il mondo degli uomini e quello dei morti. Non è un caso dunque che le fave siano state rinvenute  anche in tombe egizie del 2400 a.C., e che gli egizi non ne mangiavano in quanto simbolo dell’incarnazione.

Dagli Egizi la superstizione arrivò ai Greci.

In “Vita di Pitagora” si legge che la fava sarebbe stata un veicolo per le anime dei morti che potevano prendere possesso di un essere umano e ciò spiegherebbe la sua presenza nei riti funebri in Grecia e poi a Roma. Come era possibile?

Non solo per il gambo della pianta  ma anche perché Pitagora aveva osservato la macchia nera sui loro fiori bianchi. Un simbolo. La sua forma  rappresentava la lettera “theta”, inziale di Thanatos che significa morte. Le fave per i Greci furono dunque il simbolo dei defunti e si vietava di consumarle perché sarebbe stato come  interrompere il ciclo della reincarnazione.

In età arcaica furono utilizzate  anche per interrogare gli dei attraverso un sorteggio, rito che ritroveremo nel Medioevo e nella Toscana dell’800  dove  serviranno a votare, distinte in bianche e nere.

Pure  lo scrittore latino Plinio il Vecchio, nel I sec. d.C., credeva che contenessero le anime dei morti ma secondo lui si dovevano mangiare poiché trasmettevano la loro benedizione. Però erano afrodisiache e i sogni dopo una cena con un piatto di fave erano particolarmente agitati per cui le collegava alla comunicazione con le divinità e ai presagi.

E non solo il legume avrebbe dato nome alla gens Fabia ma durante la festa dedicata alle fave, le Calendae fabriae del primo giugno, nel rito sacro in onore alla ninfa Carna che proteggeva gli organi vitali dell’uomo,  si offrivano farinate di fave alle divinità perché proteggessero dai dolori delle viscere.

I Romani le  consumavano nel silicernium, il pasto delle occasioni funebri e  nella giornata conclusiva delle Parentalia in onore dei parenti defunti, celebrata il 21 di febbraio. Le gettavano nelle tombe  perché credevano fosse il cibo preferito dai defunti che ne potevano trarre le energie per gli inferi.

Plinio sosteneva che la fava rosicchiata prendeva nuova vita con la luna crescente. Dunque erano augurali tanto che durante le feste che i Romani dedicavano alla dea Flora, protettrice della natura che germoglia, venivano lanciate sulla folla in segno di rinascita.

Apicio nel “De re coquinaria” ne racconta gli usi in cucina.

Fu nel Medioevo che la fava venne apprezzata particolarmente in alimentazione. Nel Rinascimento riconosceranno le qualità afrodisiache del legume per cui “gonfia il ventre e stimola la lussuria” e in effetti di recente si è scoperto che la causa è lo sviluppo della dopamina dato dai principi attivi di questo legume.

Ma con la scoperta dell’America le fave dovettero cedere al nuovo gusto, quello del fagiolo.

Rimangono le memorie popolari per cui si seminano in Novembre: “ci ole ccabba li ‘ceddi pizzulanti, cchianta la fava de Tutti li Santi

(se si vogliono eludere gli uccelli “pizzulanti” che si cibano delle fave, bisogna seminarle il giorno di Ognissanti perché in quel periodo i volatili sono distratti dalle olive sui rami degli alberi), ma è bene a “Sam Martinu, fave e llinu” piantare fave e lino per la celebrazione di San Martino l’11 novembre perché povera quella pianta di fava che per la Madonna Immacolata non è ancora nata  “de la Mmaculata, mmar’a lla fava ca nu nn’è nata”!

Prof.ssa Maria Frisella

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