In questo villaggio globale, dove ci vediamo costretti a cercare soluzioni ad una convivenza difficile, oggi più che mai sentiamo forte il monito del futuro. Ma occorrono coerenza, e non è mai stata facile, giustizia, e comporta rinunce del più innato egoismo, gentilezza responsabile ed in verità siamo più diffidenti di quanto riconosciamo a noi stessi. Forse per questo è meno difficile quell’affidarsi al filosofico carpe diem che ti suggerisce di lasciarti trasportare dagli eventi aspettandone gli esiti, insomma, quel rassegnato ”come veni si cunta“ a fronte di lontane paventate prospettive.
Di fatto c’è una sottile sfiducia nelle ipotetiche vision del futuro: come è possibile risolvere i problemi dell’umanità in un mondo diviso in cittadinanze diverse, troppo spesso antagoniste dove si combattono più di 135 conflitti e a lasciare le proprie terre sono in miliardi, mentre l’economia senza volto detta gli orientamenti?
E come tradurre la fratellanza in quel faticoso quotidiano sbarcare il lunario quando si parla di debito pubblico e chi non ha fatto spese folli e sprechi si trova a fare i conti con emergenze di tutti i tipi e debiti contratti da altri, da chi nemmeno conosce? Il mese dura di più di pensioni e stipendi non parametrati, mentre ti dicono che tanti soffrono la fame e la negazione dei diritti umani, ti trattengono contributi volontari e ti dicono che si deve puntare alla fraternità e all’uguaglianza, ad accessi equi ai beni comuni, al clima, alla finanza. Dai massimi sistemi al sistema della quotidianità i costi si traggono dalla gente che lavora faticosamente e con magri compensi, salari, stipendi e pensioni che non bastano ad affrontare il costo della vita.
La chiamano sostenibilità.
Si parla da sempre di evasioni fiscali da un lato e di minimo salariale per equilibrare le povertà ma già è un pensiero selettivo quel “minimo” assegnato solo ad una parte di lavoratori e non a tutto un sistema da ripensare sul merito. Rimangono inalterate le distanze dai compensi altissimi e forse anche spropositati, e disattesa la dimenticata spending review e il tanto discusso taglio degli enti pubblici inutili.
Dicono che si deve puntare alla fraternità e all’uguaglianza, ad accessi equi ai beni comuni, al clima, alla finanza, ma se tali massimi sistemi non raggiungono la quotidianità, rimaniamo sempre più soli e poveri.
Ci si confonde. Che fine ha fatto il glocalizzare?
Ricordo quando negli anni ’80 venne formulata la teoria della glocalizzazione, termine tradotto dal giapponese dochakuka, ed elaborato dai sociologi Roland Robertson e Zygmunt Bauman ad indicare la via mediana tra “globalizzazione” e “localizzazione”..
Da allora si avvertiva lo smarrimento di una governance alla quale non eravamo preparati, che dovesse conciliare la “globalizzazione” e la “localizzazione”, come dire che era già un forte richiamo a non perdere il senso delle comunità, con le loro ragioni e le loro esigenze specifiche. Forse era una utopia il volerle integrare?
Se nel processo culturale il neoumanesimo viene indicato quale unico paradigma nella convivenza di sette miliardi e mezzo di persone, qual è il senso del processo economico commerciale in tale prospettiva, per cambiare la attuale distanza tra poteri incombenti e bisogni essenziali soccombenti, per ritrovarne l’umano sentire in equilibrio?
Le logiche del mercato globale, geopolitico e geo-economico rimangono più pressanti di qualunque considerazione che richiami il valore del quotidiano.
Maria Frisella