Eterni fratelli di fuoco
Quella del Vesuvio e dell’Etna è una stona di similitudini e differenze, da renderli quasi gemelli separati alla nascita. Come due ombelichi della Terra immersi nel cuore del Mediterraneo, che prendono quanto donano, o forse due pittori di paesaggi, che giunti a vette sublimi distruggono tutto per ricominciare.
Quelli del Vesuvio e dell’Etna sono i due coni più amati, più studiati e più temuti d’Europa. La loro è una storia di similitudini e differenze, da renderli quasi fratelli di fuoco staccati alla nascita. Entrambi nel Regno di Napoli, poi delle Due Sicilie, entrambi creature di fuoco sul mento del mare, e così incisivi nel paesaggio da formare due tra i luoghi più ameni del pianeta, sono al contempo assai diversi, dal punto di vista geologico. Il siciliano Etna è un vulcano effusivo, al comportamento dinamico e costante, ma di effetti più misurabili e per lo più caratterizzato da colate di lava, che creano piattaforme basaltiche.
ll Vesuvio invece, che alterna quiescenza ad attività, è un vulcano esplosivo capace di seppellire chilometri e chilometri quadrati di terra con i suoi piroclasti, oltre che propagare, per altrettanti, la terribile nube ardente, un polmone di gas e materiali incandescenti che viaggia ad elevatissima velocità. Non è un caso che questi due titani di fuoco siano stati capaci, nelle centinaia di migliaia di anni, di forgiare un paesaggio a loro immagine e somiglianza, sempre in costante movimento. Eppure, il loro aspetto non sempre ha dato motivo di averne paura: prima del 79, i Romani chiamavano il Vesuvio semplicemente Mons Vesuvium, giacché formava, con il Somma, un’unica quieta altura col ventre segretamente infuocato, pronto a divenire il leopardiano “sterrninator Vesevo“.


E l’Etna, alto e immerso spesso nelle nevi, ancor oggi chiamato in dialetto Mungibeddu – la montagna appunto – era ben pronto a farsi conoscere nella sua potenza già ai tempi del poeta greco Pindaro, formando “fonti purissime d’orrido fuoco con bagliori di sangue”.
Ed è proprio il sangue siciliano che riporta a Napoli, dove quello del tutelare San Gennaro, rifiutandosi alla liquefazione, avvisava del prossimo movimento del Vesuvio, come nelle terribili eruzioni seicentesche e settecentesche, capaci di oscurare completamente il sole. Quelle analoghe siciliane, invece, che potevano durare anche più di cento giorni di seguito e distruggere interi quartieri, come a Catania nel 1669, erano contrastate unicamente con la preghiera a Sant’Agata, anch’essa martire, il cui velo rosso sangue veniva portato in processione affinché fermasse il vulcano.
Ma la distruzione è solo parte della loro natura. Le qualità vulcaniche Vesuviane offrono al suo circondario un’ancora illibata ed unica fertilità, come per i vitigni di “lagrime della Torre”, che un testo del 1792 vuole capaci di giungere fino all’Inghilterra senza perdere sapore. E l’Etna costruire chilometri di suolo per la sua azione, e regalare spettacoli eruttivi tutt’oggi insuperabili, con l’afflusso di visitatori da tutto il mondo. Due ombelichi della Terra immersi nel cuore del Mediterraneo – come abbiamo già detto – che prendono quanto donano, o forse due pittori di paesaggi, che giunti a vette sublimi distruggono tutto per ricominciare.
Massimo Scuderi